Il tuo capo è un algoritmo di Antonio Aloisi

Antonio Aloisi

Se sono riuscito a fare quello che ho fatto lo devo anche a lui.

Nel 2011, quando io ero una matricola della Bocconi con un sogno in tasca, Antonio era il rappresentante degli studenti. Insieme all’associazione studentesca di cui era membro mi ha aiutato nella promozione dell’allora startup Egomnia.

Collaborava con diverse testate, in particolare con Linkiesta.it, aveva un immaginario di tutto rispetto (guardate il suo intervento all’inaugurazione dell’anno accademico) e mi dava l’idea che avrebbe potuto parlare di qualsiasi cosa. Con risultati accademici brillanti.

Ero molto affascinato dalla sua persona.

Dopo essersi laureato in giurisprudenza ha lavorato al Ministero dell’Istruzione e completato un dottorato di ricerca in Diritto del Lavoro e delle nuove tecnologie, ha studiato e insegnato alla Bocconi e all’Istituto Universitario Europeo.

Ora lavora alla prestigiosa IE University di Madrid.

Ha scritto il suo primo libro Il tuo capo è un algoritmo (Laterza), insieme a Valerio De Stefano, professore alla KU Leuven in Belgio. Il libro si occupa della rivoluzione che sta avvenendo nel mondo del lavoro.

Con un linguaggio chiaro e un tono accessibile a tutti.

Automazione, algoritmi, piattaforme, smart working sono solo alcuni dei temi trattati.


Di seguito le domande che ho rivolto ad Antonio:

Il Covid-19 ha velocizzato il processo di cambiamento del mondo del lavoro?:

In tanti si sono affrettati a definire la pandemia come un acceleratore di macrotendenze in atto. In parte è così. Ma questa sventura andrebbe considerata anche come una lente d’ingrandimento di alcuni fenomeni che sono qui per restare. Prima di tutto una polarizzazione tra lavori essenziali e prestazioni remotizzabili (con le difficoltà che ne derivano in termini di cura dei figli). Questa profonda spaccatura tra chi deve presentarsi a lavoro e chi ha il privilegio di poter restare in casa rischia di esacerbare ingiustizie già esistenti e va affrontata anche politicamente, perché minaccia di generare risentimento. Ma l’epidemia ha anche rafforzato il ruolo delle tecnologie digitali nelle nostre vite private e professionali, in funzione anticontagio, per svolgere attività da remoto, per studiare.

Inoltre, come tutti noi abbiamo sperimentato, se da un lato l’emergenza sanitaria ci ha imposto di archiviare alcuni tabù – si pensi alla resistenza all’adozione di modelli di lavoro agile, dall’altro ha evidenziato come non ci siano soluzioni digitali a problemi organizzativi o, peggio, culturali. In molti posti di lavoro, l’incapacità di ridisegnare i flussi e le responsabilità ha causato molte disfunzioni a cui si è reagito con l’accrescimento del controllo (è boom di software che tracciano le e-mail, verificano il tempo speso online, catturano le schermate o scattano foto con la webcam). D’altra parte, la crisi ha confermato pure che il mito della automazione totale è una mezza bufala. A marzo si era detto “i robot non si ammalano, questa crisi contribuirà a spazzare via il lavoro umano”. Non solo non è successo, ma abbiamo compreso come l’infrastruttura umana che tiene in piedi molte attività sia imprescindibile. Semmai è emerso il tema della scarsa protezione e della misera valorizzazione dei mestieri “in prima linea”.

Con Valerio nel libro proviamo a disegnare una storia alternativa delle trasformazioni anche digitali del lavoro, proprio per evitare di subire i cambi di paradigma come quello che stiamo vivendo. Da un mercato del lavoro in trasformazione ci si aspetta un contributo in termini di inclusione, uguaglianza, accesso diffuso alle opportunità, concorrenza, ma anche efficacia nell’allocazione delle prestazioni sociali, nel contrasto alle frodi e al malaffare. Ci serve una tecnologia che sia in grado di produrre risultati migliori di quelli finora ottenuti a mani nude. Per realizzare in concreto la promessa emancipatrice che oggi tarda a materializzarsi.

Quali sono i primi cambiamenti che avverranno/stanno avvenenedo?:

Cambia l’organizzazione, cambiano gli strumenti, cambiano i rapporti di forza. A dire il vero, essere in perenne evoluzione è una caratteristica intrinseca, e affascinante, del lavoro. Eppure, la velocità, la portata e la varietà di alcuni vettori dell’accelerazione in corso, quali automazione, intelligenza artificiale e piattaforme, ci pongono al cospetto di sfide in parte nuove, per le quali siamo scarsamente allenati. Per orientarsi, sosteniamo nel libro, c’è bisogno di un cambio di passo.

Il tuo capo è un algoritmo adotta una prospettiva diversa, rinunciando all’idea che lo stato del progresso tecnologico sia – come troppi sostengono – inevitabile. Sostiene che, per governare la trasformazione digitale, sia necessario scegliere non quanto, ma quale lavoro vogliamo.

Vogliamo anche raccontare come i nuovi strumenti di lavoro ci permetteranno di risparmiare fatica e noia, rimpiazzando lavori pericolosi, duri o ripetitivi. Allo stesso tempo, ci sforziamo di mettere in guardia su come alcune applicazioni tecnologiche tendano a essere usate per sottoporre tutti a regimi di sorveglianza invasiva e continua, anche sul lavoro (accrescendo il livello di stress e annullando gli spazi più intimi di riservatezza). Anziché semplificarci la vita, c’è il rischio che la tecnologia replichi errori del passato, mai davvero archiviati.

Dagli algoritmi (usati per selezionare i candidati a una posizione lavorativa) che incorporano pregiudizi e disparità, alle piattaforme online della gig-economy (che in molti usano per ordinare una pizza in una sera di pioggia) che esercitano poteri robusti rinunciando alle responsabilità che ne conseguono, fino all’intelligenza artificiale usata per sorvegliare al millimetro il comportamento dei lavoratori, così comprimendo ogni spazio di autonomia e creatività. Ma non siamo condannati a questa realtà. Il testo offre gli strumenti per godersi il meglio dell’innovazione, senza abdicare ai valori fondamentali.

Cosa spetta ai neolaureati 2020-2021?:

Gli studenti che completano gli studi in queste sessioni hanno di fronte a sé sfide vertiginose. Sono rimasti fuori dal raggio di azione delle politiche emergenziali, sono trascurati nella sfera pubblica (e quando la stampa ne parla lo fa spesso in maniera apocalittica o caricaturale), né hanno trovato una voce riconoscibile per manifestare il disagio e proporre soluzioni. In generale, chi ha concluso di recente un percorso formativo non ha vita facile. Dai medici abilitati ai praticanti avvocati, l’impressione è che la burocrazia più ottusa si stia accanendo sul loro futuro, in combutta con sacche di conservazione che si annidano negli ordini professionali e nella politica. Portano addosso una fatica enorme, eppure il loro peso pubblico sembra trascurabile.

Ho il privilegio di stare ogni settimana in classe con studenti che sono almeno dieci anni più giovani di me. Li stimo e quasi li invidio. Sono molto più svegli di noi. Nella maggior parte dei casi, non cercano scuse ma opportunità su cui confrontarsi. Hanno imparato a fare i conti con contesti interconnessi, competitivi, difficili.

Per molti neolaureati non sono tempi semplici: molte internship sono state cancellate e anche i percorsi di reclutamento hanno subito rallentamenti. Probabilmente è anche calata l’attenzione che si dedica loro una volta assunti, considerata la fase caotica. Non c’è da disperare, perché in un mondo che cambia hanno il vantaggio di essere “i nuovi”, perfettamente equipaggiati per situazioni che ancora non esistono. Questo capitale umano, sociale, relazionale non va dilapidato. Se dovessi dare un consiglio, direi di tenere duro – certo – e di non scegliere la prima cosa che capita a tiro, spinti dall’ansia di portare a casa un risultato qualsiasi. Ai neolaureati 2020-2021 spetta prima di tutto proteggere il proprio valore, nel mezzo di una prova tanto inattesa. Le competenze che hanno affinato vanno messe a frutto con molta ambizione e tanta intransigenza. Devono scegliere, non farsi scegliere. È tosta, ma anche l’unico modo per resistere alle turbolenze presenti e future.

Cosa ti ha insegnato il lavoro?:

Ho avuto maestri eccezionali in tutti i contesti in cui mi è capitato di trovarmi. Maestri tutti diversi, ovviamente, per formazione e aspirazioni. Tutti però hanno qualcosa in comune. Sono indipendenti, fuori dai giri e riconoscibili in questa loro diversità naturale. Mi hanno insegnato non a diventare un perfetto esecutore di liturgie al tramonto, ma lo sperimentatore di idee inedite, sicuramente imperfette ma di certo non omologate. Da loro ho imparato ad essere autoironico, antidogmatico e autonomo. Mi hanno fatto capire che non c’è tempo da perdere, che la cautela è l’opportunismo dei giovani, che evitare le repliche è l’unico modo per cambiare le cose, che gli errori non vanno tramandati ma scongiurati.

Ho colleghi e amici straordinari, accanto ai quali mi sento perennemente l’ultimo della classe. È un sollievo, perché impone di non smettere mai di imparare, questa circostanza mi fa sentire in difetto e quindi predisposto all’ascolto. Consente di evitare di prendersi troppo sul serio o ancora di credere di avere tutto sotto controllo. Credo che la crescita personale nasca proprio dal fastidio per l’incompletezza e l’approssimazione. Ho anche la fortuna di potermi circondare di un nucleo di persone che hanno optato per la sincerità come regola di ingaggio. Di questi tempi, una cosa non da poco. Consiglio a tutti di “munirsi” di qualcuno capace di prenderlo a pernacchie. È un antidoto contro la deriva.

Cosa ti dà energia?:

Ho la fortuna di essere impegnato in attività che mi eccitano. Studio, scrivo, condivido. Quasi ai limiti del maniacale, vado a letto pensando a ciò che ho in programma il giorno dopo e mi sveglio pieno di energia e affamato di novità. La pretesa di contribuire a riparare il mondo, per quanto ingenua e quindi sacrosanta, tiene accese le mie stelle.

Cosa diresti a te stesso bambino?:

Non ho grandi rimbrotti da fare, gli suggerirei di godersi tutto con molta intensità e senza filtri. E lo ringrazierei per avermi portato fin qui senza essersene mai andato.

Cosa vuoi fare da grande?:

Continuare a imparare con voluttà, riuscire a non diventare ciò che oggi detesto, avere qualcosa di intelligente da rispondere a domande come questa.